Oggi, sempre più ricercatori sono concordi nell’affermare che le cure materne lasciano il segno nel DNA dei piccoli; ciò che un individuo è dipende dai suoi geni ma anche dalle sue prime esperienze di vita, sia nell’utero materno che durante l’infanzia, e quindi dall’ambiente e dal contesto sociale in cui cresce e vive. I più recenti studi nel campo dell’epigenetica evidenziano che esistono importanti interconnessioni tra influenze ambientali e caratteri genetici. I ricercatori del Salk Institute for Biological Studies in California (studio pubblicato su Science nel 2018), hanno di recente dimostrato come l’accudimento materno nei primi giorni di vita possa modificare la sequenza del DNA nei neuroni dei cuccioli di topo, traducendosi in modifiche persistenti nel loro comportamento: i topi che durante i primi giorni di vita ricevono più attenzioni e coccole dalla mamma, hanno il DNA di alcuni neuroni diverso verso da quello dei roditori che ne hanno ricevute di meno come se, spiegano i ricercatori, l’esperienza dei primissimi momenti di vita venisse registrata nel genoma. Un portavoce del team di ricerca spiega che la scoperta potrebbe aiutare la medicina in campo psichiatrico nell’ambito della prevenzione (gli esperti ritengono che potrebbe essere utilizzata per combattere ansia, depressione e schizofrenia): “Ci viene insegnato che il nostro Dna è qualcosa di stabile e immutabile che ci rende ciò che siamo, ma in realtà è molto più dinamico. Si scopre che ci sono geni nelle cellule che sono in grado di copiare se stessi e spostarsi, il che significa che il Dna cambia”.
L’ultimo mistero dell’ereditarietà, (2011) il libro dello scrittore e biologo Richard C. Francis, ancora inedito in Italia, è una delle prime opere divulgative sulle nuove frontiere offerte dall’epigenetica e sul modo in cui l’ambiente può lasciare tracce indelebili sul DNA, riferendosi in particolare al fatto secondo cui lo stress ambientale può avere un impatto talmente profondo sulla fisiologia di un individuo che le sue modificazioni biologiche possono essere ereditate per generazioni a seguire. Vi è una sorprendente analogia fra tra le moderne neuroscienze e i più tradizionali orizzonti della psicologia dell’infanzia riguardo agli studi sull’amore materno, e importanti connessioni.
Infatti, lo studio scientifico dell’importanza delle cure materne e del contatto fisico sullo sviluppo nervoso, affettivo e comportamentale dei mammiferi risale alla metà del XX secolo. Alcuni studi in particolare rappresentano delle pietre miliari nella storia della ricerca medica e psicoanalitica.
René Spitz, medico e psicoanalista austriaco (1887-1974), operante negli Stati Uniti, compie numerose ricerche sulla relazione madre-figlio a partire dagli anni ’40 del Novecento. Egli è uno dei primi studiosi ad applicare allo studio della prima infanzia i metodi della ricerca sul campo; dalle sue ricerche trae la conclusione che la relazione fra la madre e il bambino è fondamentalmente una relazione ambiente-individuo e che la madre costituisce uno stimolo di crescita essenziale per il bambino. “Raramente ci si rende conto della grande importanza della madre nei processi di apprendimento e di presa di coscienza del bambino. Ancor più raramente ci si rende conto dell’importanza primordiale che in questo processo hanno i sentimenti della madre, cioè quello che noi chiamiamo “atteggiamento affettivo”. La tenerezza della madre permette di offrire al bambino una ricca gamma di esperienze vitali; il suo atteggiamento affettivo determina la qualità delle esperienze stesse. […] Nei primi mesi le esperienze del bambino sono esclusivamente di ordine affettivo.” (R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, 1972)
Tra il 1945 e il 1946 Spitz mette a confronto due gruppi di bambini istituzionalizzati. Il primo costituito da 220 elementi, figli di donne detenute in un carcere femminile, ma con la possibilità di dedicarsi personalmente ai loro piccoli in un asilo nido annesso alla struttura. Il secondo, invece, comprende diverse centinaia di infanti abbandonati e ospitati in un brefotrofio. Spitz nota che in entrambi i casi i bambini sono adeguatamente nutriti e curati dal punto di vista igienico, ma nel secondo gruppo, malgrado la presenza di operatrici professioniste appositamente formate per l’assistenza ai lattanti, i bambini presentano un quadro clinico preoccupante a partire dal compimento del 1° anno di vita, in quanto le nutrici non hanno la possibilità di coccolare o accarezzare i bambini, dovendo badare a un numero troppo alto di essi. Molti non avranno una crescita regolare: manifesteranno evidenti ritardi nello sviluppo cognitivo e motorio – con sintomi quali mancanza di risposta agli stimoli esterni, inespressività del volto (apatie e indifferenza), spasmi muscolari, crisi di pianto – nonché un marcato abbassamento delle difese immunitarie. Il 37% di essi giungerà a morire entro il secondo anno di vita. Spitz conclude che essi vengono trattati in maniera asettica e impersonale, come un oggetto da curare, quando invece ciò che serve è un ambiente in primo luogo affettivo e relazionale, prima ancora che materiale.
Il bambino non ha bisogno solo di cure materiali, ma anche e soprattutto di stabilire con la madre (o la persona che comunque lo accudisce regolarmente) un forte legame affettivo. I sorrisi, le carezze, il contatto fisico col corpo di lei stimolano nel piccolo una reazione positiva assolutamente necessaria per il proprio corretto sviluppo. Il sé già formato della madre permette la creazione e la formazione del sé del figlio, attraverso una continua interazione fatta di sensazioni e di emozioni trasmesse attraverso simboli, ossia le parole e i gesti con cui la madre comunica il proprio affetto al figlio. Se invece questo legame è assente, o viene a mancare per un qualsiasi motivo, il bambino si sente abbandonato, smarrito, incapace di trovare quel punto di riferimento per lui vitale. Ecco che lo stress emotivo causato dalla mancanza di una reale figura materna si ripercuote sulla maturazione dando luogo a una serie di gravi disturbi fisici e psicologici.
Nel 1958 lo psicologo statunitense Harry Harlow effettua un esperimento divenuto estremamente celebre. Più di 60 piccoli di macaco vengono separati dalla madre a poche ore dalla nascita e allevati con latte artificiale. È interessante come i piccoli vengano immediatamente attratti da pannolini trovati nella gabbia e quando tali panni vengono rimossi per essere lavati, i macachi protestano e danno segno di grande afflizione. Di fronte a ciò, lo studioso decide di costruire due “madri surrogato” e di riporle nelle gabbie 24 ore su 24: una di ferro con una bottiglia che dispensa latte attaccata al petto e una con la stessa struttura ma ricoperta con il panno e priva di biberon. Harlow osserva che le scimmiette tendono a stare abbracciate alla “mamma morbida”, calda e accogliente, e si spostano verso l’altra figura solo il tempo necessario a nutrirsi. Oltretutto, se viene introdotto appositamente nella gabbia un oggetto estraneo che incute timore, il piccolo corre verso il fantoccio di panno e vi si rannicchia come fonte di sicurezza. Harlow dimostra la preferenza dei piccoli per la madre “morbida” che non fornisce latte, rilevando come un caldo contatto sia più importante per i piccoli del bisogno stesso di cibo. Non è il soddisfacimento dei bisogni primari a creare quel legame indissolubile che in ogni specie si instaura tra madre e figlio ma la necessità della vicinanza fisica, del calore, della possibilità di sentirsi protetti.
Infatti, molto presto il pupazzo morbido non basta più: i piccoli di macaco cominciano a soffrire la mancanza della madre in carne e ossa e diventano tristi e apatici. Il pupazzo non è capace di stringerli, tenerli dolcemente, baciarli, lasciarli andare e riprenderli, insomma di compiere tutte quelle azioni che trasmettono amore.
Dopo alcune settimane di questa esperienza, una parte degli animali viene nuovamente rimessa con le madri vere, ma questo fatto non basterà a riparare i gravi danni compiuti: una volta adulte, infatti, le scimmie esibiranno un comportamento sociale, sessuale e materno patologico; mostreranno paura eccessiva di qualunque novità, non giocheranno con i compagni, non accetteranno il corteggiamento e, se divenute madri a loro volta, aggrediranno i propri cuccioli. La deprivazione delle cure materne, in particolare la mancanza del contatto affettuoso, determina effetti drammatici e pervasivi: l’amore non ricevuto e non sperimentato, non può essere donato. (Harlow, 1958)
John Bowlby, psicoanalista britannico, (1907-1990), svolge la sua ricca attività di ricerca a Londra. L’insieme delle sue esperienze sul campo gli danno la convinzione che l’origine delle psicopatologie sia da ricercarsi nelle esperienze reali della vita interpersonale e orientano il suo interesse, fin dall’inizio, sullo studio della natura di quel legame, potente e duraturo, che si stabilisce precocemente tra l’individuo che cresce e coloro che ne hanno cura, portandolo nel tempo a formulare una vera e propria teoria dell’attaccamento, espressa in modo completo e sistematico nella trilogia Attaccamento e perdita. Tale teoria costituisce a oggi “il modello teorico più completo e articolato a cui fare riferimento per comprendere e spiegare i meccanismi psicodinamici che sottendono i processi evolutivi.” (F. Tani, 2011).
Sostenuto dagli studi di Harlow sulla natura confortante dell’attaccamento alla madre, Bowlby arriva a confutare quello che lui definisce “l’amore interessato delle relazioni oggettuali”, secondo cui il bambino si attacca alla madre perché questa soddisfa alcuni suoi bisogni fisiologici come quelli di cibo e calore (Bowlby, 1969).
Basandosi su osservazioni del legame madre-figlio nei primati non umani, oltre che su quelle derivate dalla sua pratica clinica, Bowlby arriva a teorizzare che il bambino possiede una “predisposizione biologica” a sviluppare un legame di attaccamento nei confronti di una sola persona, quella che si prende cura di lui. Tale predisposizione è geneticamente determinata e filogeneticamente trasmessa in quanto funzionale alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Bowlby si affaccia all’etologia influenzato dalle scoperte di K. Lorenz sul fenomeno dell’imprinting e dagli studi di Harlow.
Negli studi di Lorenz si può notare come in piccoli anatroccoli si possa sviluppare un legame di attaccamento anche senza l’intermediazione del cibo. In sintesi si può desumere che il sistema dell’attaccamento non sia collegato al nutrimento, come sostenevano i teorici dell’apprendimento sociale e la scuola psicoanalitica, ma si tratta di un bisogno primario che può essere studiato all’interno di una cornice evoluzionista e di sviluppo. Secondo la teoria di Lorenz i piccoli di anatroccolo, privati della figura materna naturale, seguono un essere umano o qualsiasi altro oggetto, nei confronti del quale sviluppano un forte legame che va oltre la semplice richiesta di nutrizione, dato che questo tipo di animale si nutre autonomamente (Lorenz, 1935).
Nel bambino, lo stile di attaccamento che egli sviluppa dipende dalla “qualità” delle cure materne ricevute, e lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri. Se si manifestassero in età adulta stati di angoscia e depressione, è possibile secondo Bowlby che possano derivare da periodi in cui la persona ha fatto esperienza infantile di angoscia e distacco dalla figura di riferimento.
Vengono identificate tre tipologie fondamentali di attaccamento: attaccamento sicuro, attaccamento insicuro-ambivalente, attaccamento insicuro-evitante e, successivamente da un gruppo di studiosi dell’Università di Berkeley, attaccamento disorganizzato. L’attaccamento sicuro si verifica quando la figura accudente è sensibile ai segnali del bambino, disponibile e pronta a dargli protezione nel momento in cui egli lo richiede; di conseguenza, il piccolo acquisisce e mantiene sicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di essere amabile, capacità di sopportazione del distacco prolungato, nessun timore di abbandono, fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri. Un attaccamento insicuro si verifica quando il bambino non ha la certezza che la madre sia disponibile a rispondere a una richiesta di aiuto, anzi molto probabilmente verrà rifiutato. In particolare, la figura di attaccamento è disponibile in alcune occasioni ma non in altre (ambivalente), imprevedibile nei suoi comportamenti, alternante nei sentimenti, inaspettata nelle reazioni. In questi bambini si sviluppano l’ansia da abbandono, l’insicurezza nell’esplorazione del mondo e il senso di colpa, l’incapacità di sopportare distacchi prolungati, la sfiducia nelle proprie capacità. Si può, inoltre, verificare che la madre respinga costantemente il figlio ogni volta che le si avvicina per la ricerca di conforto o protezione, evitando ogni contatto fisico. Nel bambino le emozioni predominanti sono tristezza, dolore e freddezza emotiva, distacco e tendenza all’evitamento.
Come si evince, non è più in primo piano la gratificazione orale ricevuta dal bambino, quanto piuttosto la qualità dell’accudimento, ovvero la disponibilità e la capacità di risposta materna. Allo sviluppo del suo pensiero contribuiscono il suo lavoro come psichiatra infantile alla Child Guidance Clinic di Londra, ma anche la decennale esperienza come direttore del “Dipartimento per i bambini e i genitori” della Tavistock Clinic di Londra, a partire dal 1946, cui si affianca una ricca attività di ricerca condotta in collaborazione con i coniugi Robertson, e, infine, la nomina di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’incarico di redigere un rapporto sulla salute mentale dei bambini abbandonati. L’idea che spinge Bowlby a formulare la suddetta teoria, deriva dalle scoperte relative ai pervasivi effetti patologici che vengono evidenziati in bambini istituzionalizzati o ospedalizzati per lunghi periodi, separati dalla famiglia e con discontinuità delle figure assistenziali, emersi con sconcertante evidenza dagli studi di Spitz sulla la sindrome dell’ospedalismo (Spitz 1945) e sulla depressione analitica, e da quello da lui stesso condotto in collaborazione con Robertson (Robertson e Bowlby, 1952).
Dall’ultima intervista concessa nel 1990, poco prima di morire: “Tutto è iniziato negli anni ‘30, tra il 1936 e il 1940. Lavoravo come psichiatra dell’infanzia a Londra mentre completavo il mio training in psicanalisi. Uno dei concetti a cui mi interessai molto presto fu l’importanza delle prime relazioni genitore-figlio e la misura in cui esperienze avverse, all’interno della famiglia, avrebbero potuto avere un effetto negativo sulla salute fisica e mentale del bambino. A quel tempo molti colleghi psicoanalisti erano poco inclini a dare importanza agli eventi di vita avversi come fattore importante per lo sviluppo del bambino. […] Negli anni ‘30, a Londra, c’era un forte atteggiamento per cui non si sarebbe dovuto mai credere alle storie dei pazienti inerenti abuso sessuale o ogni altra esperienza avversa causata dai genitori, e che non bisognava fidarsi della validità del resoconto del paziente. Invece, io pensavo che gli eventi avversi fossero di grande importanza e, da giovane psicoanalista e giovane psichiatra dell’infanzia, tentai di dimostrare che gli eventi di vita reale della prima infanzia giocavano un ruolo preminente nel determinare la salute mentale. Ed è così che cominciò lo studio al quale fin da allora mi sono poi dedicato. […] Il motivo per cui io mi focalizzai su separazione e perdita fu, in parte, perché essa poteva essere oggetto di ricerca; inoltre avevo osservato, alla Child Guidance Clinic, un numero di casi dove la personalità del bambino, diventato poi delinquente e ingestibile, mi sembrava essere stata precocemente preceduta da relazioni molto distruttive tra il bambino e la madre. Una volta considerati degli eventi antecedenti precoci si sarebbe potuta dimostrare una loro presenza in modo statisticamente significativo per studiare se fosse probabile una connessione importante. Esistevano molte evidenze cliniche interne che suggerivano che le prime esperienze avverse avevano portato a risultati che comprendevano bambini con scarse relazioni emotive o con un disinteresse per esse, che non sembravano essere influenzati dalla lode o dalla punizione, o che andavano per la propria strada. Essi marinavano la scuola, scappavano via, facevano piccoli furti e così via. Erano bloccati emozionalmente. Tutto è iniziato così; stavo partendo da una condizione che io credo rappresenti, in realtà, le fasi precoci di una personalità psicopatica.”
In tempi più recenti, a partire dagli anni ‘70/’80 del Novecento, numerosi studi hanno verificato che gli adulti esposti nell’infanzia a eventi stressanti hanno una maggiore probabilità di presentare malattie mentali (in particolare è stato sostenuto un nesso causale fra eventi di perdita e presenza di patologia depressiva). Le esperienze di distacco e/o abbandono vissute nell’infanzia determinano una vulnerabilità intrapsichica predisponente alla malattia depressiva, condizione caratterizzata da passività, bassa autostima, dipendenza psichica ed emotiva, autosvalutazione e rigidità psico-comportamentale. Molti di questi studi hanno utilizzato una modalità di indagine organizzata su un criterio retrospettivo, ossia registrando il numero e il “peso” di eventi negativi occorsi a soggetti in cura per depressione durante la loro infanzia (Campbell, 1983; Bernstein,1986; Barnett, 1988; Block, 1991; Jensen, 1991; Kessler, 1993; Brown, 1994; Rodgers, 1996; Berger, 1998; Infrasca, 1998).
La possibilità di poter disporre di attendibili parametri in grado di valutare la consistenza dei fattori infantili legati al rischio di depressione nell’adulto, si evidenzia come una condizione essenziale per organizzare adeguati interventi di prevenzione.